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La tortura spagnola e il fegato di 4 Sedilesi

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L'articolo de L'Unione Sarda a firma di Maurizio Marongiu, datata 28 aprile 1928, scoperta negli archivi del quotidiano sardo da Maurizio Pretta che ne fa gentile dono alla nostra comunità.

La tortura, quel terribile tormento che, per mezzo di una grande varietà di ordigni, da tempi remoti, s'infliggeva agli imputati per costringerli a confessarsi rei di un delitto o a svelare i nomi dei complici, ci sembra oggi una cosa estremamente barbara, e al solo pensarvi ci sentiamo presi da raccapriccio, perché sappiamo che col tal mezzo, crudele per se stesso, raramente si riusciva a conoscere la verità; più spesso i pazienti, non potendo tollerare lo strazio che si faceva delle loro carni, si accusavano di colpe mai commesse o ne accusavano altri innocenti. Si racconta il caso di un marito che, imputato di usoricidio (la moglie era sparita non si sa come né perché) non potendo reggere alla tortura, finì con l'ammettere di aver commesso il delitto. Venne condannato; ma per fortuna, mentre si stava per giustiziarlo, comparve la moglie in carne ed ossa e fu salvo. Le cronache giudiziarie antiche abbondano di questi fatti atroci. Eppure la tortura fu usata ed abusata per secoli e secoli in molti Stati, senza che se ne riconoscesse l'inefficacia e la sua inutile crudeltà. Per citare un solo paese, e non dei meno civili, in Francia essa fu sempre in atto fin quasi alla vigilia della grande rivoluzione (1780).
Nella nostra Sardegna non si ha traccia della tortura, né nel Codice della Repubblica Sassarese, né nella Carta de Logu, essa fu importata dagli Aragonesi che l'applicarono fin troppo abbondantemente da noi.
Un processo, e la relativa sentenza, del secolo XVI, trovato nel R. Archivio di Stato di Cagliari da Ignazio Pillito e tradotto dall'aragonese dal Canonico Spano, ci fornisce un esempio preciso del come si applicasse allora la tortura nell'Isola; facendoci conoscere, allo stesso tempo, il coraggio e la fortezza d'animo di alcuni Sardi, che la dovettero subire. Esaminiamolo brevemente, chè ne vale la pena.
Da tempo batteva la campagna di Sedilo il bandito Bachisio Meli, che era diventato terrore di quella regione. Essendosi procurato un cospicuo numero di favoreggiatori, forse tali più per paura che per amore, la forza pubblica non era mai potuta riuscire a mettergli le mani addosso.
La temerarietà del bandito era tale che non aveva ritegno di entrare di quando in quando nel suo paese a visitarvi i parenti. Una volta, travestito, si era goduto la festa di S. Costantino. Una di quelle visite però gli fu fatale, perché venne scovato, accerchiato e ucciso nella mischia, dopo esserci difeso disperatamente e avere colpito a morte un agente della forza pubblica. Si praticarono subito molti arresti, e il processo fu istruito a Sedilo dal R. Commissario Cosimo Maliano, il quale terrorizzò addirittura i testimoni, perché affermassero ciò che egli desiderava contro gli imputati, cioè aver favorito e aiutato il bandito e di avergli anche dato ricetto nelle loro case. Ben 21 sedilesi furono portati a dibattimento, e contro di essi fu pronunciata condanna a pene di varia durata con sentenza del 17 agosto 1590. La pena più grave toccò a Nicola Manca, Bernardino Spano, Gaspare Pala e Vigilante Nonne, condannati all'estremo supplizio, "previa tortura". E non si pose molto tempo in mezzo a far scontare questa seconda parte della pena. Il giorno stesso che fu pubblicata la sentenza, alla presenza del R. Consigliere di Cagliari Pietro Michele Giagaracchio, il R. Procuratore fiscale Michele Otger, dell'alguazile Giacomo Xinto, di alcune guardie, del chirurgo Antonio Seche e del Notaio Delitala, che ne stese verbale, i rei furono introdotti nella sala del tormento di San Pancrazio. Lo strumento che allora si usava per estorcere la verità (sic!) era la corda. Il paziente veniva lasciato in camicia e mutande; gli si legavano i polsi dietro il dorso, e ai polsi gli veniva annodata una fune, che, scorrendo in una puleggia, fissa all'estremità di una sbarra orizzontale sistemata su una alta antenna, serviva a sollevarlo da terra. E' facile immaginare quale slogamento avvenisse nelle braccia, costrette a portare tutto il peso del corpo in quell'anormale posizione. E come se ciò non bastasse, se il paziente non confessava la verità, (anche quando la ignorasse!) dopo trascorsa la prima mezz'ora, gli si legavano ai piedi i contrappesi, che consistevano in due grossi sassi, att, per il loro peso, a slogargli maggiormente le giunture delle braccia.
Questa seconda prova durava un'altra mezz'ora, sempre quando il R. Consigliere non avesse creduto opportuno di farla protrarre più a lungo: anche per una giornata intera!
I torturati, discesi dal tormento, istupiditi e insensati, dei veri cenci umani, e molti ne portavano le conseguenze per tutta la vita.
Qualche volta un contrappeso, anziché ai piedi, si legava, orribile a dirsi: a parti del corpo più delicate. Il primo dei quattro ad essere chiamato alla tortura fu Nicolò Manca. Prima però di farlo sollevare da terra, il magnifico signor Giagaracchio "lo esortò a dire la verità, a non voler soffrire per gli altri, a fare i nomi di tutti quelli che avevano aiutato e il "quondam" Bachisio Meli, bandito dal Re". Il Manca rispose di non aver fatto male a nessuno e di non aver nulla da dire. Allora, ad un cenno del R. Consigliere, fu tirata la fune ed il paziente venne sollevato di qualche metro dal suolo. Uno scricchiolio di osse, un pallore cadaverico ed il Manca implorò: "Nostro Signore, ajudademi! Denanti de Deus minde dades contu de su qui mifaghides contra justu!". Poi chiuse gli occhi e non disse altro. In quella posizione stette per mezz'ora, dopo la quale fu messo a terra e, mentre gli si legavano ai piedi i contrappesi, fu di nuovo invitato a dire la verità; ma egli rispose sempre di non aver nulla da dire.
Partì un altro ordine ed il corpo del Manca, gravato del maggior peso, si librò ancora nel vuoto. Questa volta gridò solo: "Virgine Maria, ajudademi!" - poi strinse forte coi denti la camicia e tacque sino alla fine del tormento.
Lo stesso risultato si ebbe nei due giorni seguenti in cui l'orribile funzione venne ripetuta su di lui. Il contegno degli altri due fu press'a poco uguale. Solo in principio del suplizio diedero qualche lamento e qualche grido, proclamandosi innocenti: "Pro s'amore de Deus, proite mi occhides? Justizia de su Chelu qui mi occhini senza rejone!".
Lo Spano si stirò e tacque; il Pala dimenò le gambe, si rannicchiò, indi chiuse gli occhi e non parlò più; il Nonne stette quasi sempre zitto. Nè ci fu verso di farli parlare neanche nei giorni successivi quando furono ancora torturati, lo Spano per un'altra mezz'ora, il Pala per un'altra ora e il Nonne per altre due ore. Va notato che il secondo giorno, non si sa per quale sfregio o per quale aberrazione al Nonne furono rase la testa e tutte le parti pelose del corpo!
Ora, io non so se costoro fossero innocenti o colpevoli; sia comunque essi sono veramente da ammirare per lo stoico coraggio e per la non comune fortezza d'animo di cui diedero prova; ed anche, direi quasi, per la rettitudine della coscienza, perché, come molti solevano fare in quelle terribili circostanze, avrebbero potuto dare alcuni nomi di persone per por termine al loro strazio, e non lo fecero. Vera tempra sarda, avezza a tutte le sofferenze, fiera contro tutte le ingiustizie, che si spezza, ma non si piega.
La delizia della tortura durò in Sardegna fino al 1821 e l'ultimo cui venne inflitta a Cagliari fu il facchino Paolo Gallus, reo di aver imprecato al Re. Fu però un'altra forma di tortura chiamata di punizione, che si applicava sul bastione Santa Croce, vicino alla torre dell'Elefante. Le grida arrivavano spesso fino al sottostante rione di Stampace.
Giunto a questi punto il lettore potrebbe chiedere: "Che ne fu dei quattro torturati? Furono essi giustiziati?". No, il Vicerè Don Michele di Moncada, il giorno 21 agosto dello stesso anno, comutò ai quattro Sedilesi la pena di morte nella galera a vita, a patto che pagassero lire sarde 200 alla Cassa Regia. La vita di un Sardo - commenta il Canonico Spano - valeva allora la miseria di 50 lire!

Maurizio Marongiu

L'Unione Sarda - 28 aprile 1928

[07 giugno 2019]

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